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Non solo Placebo: la neurobiologia degli effetti da prodotti inerti

03.04.2014 14:13

Non solo Placebo: la neurobiologia degli effetti da prodotti inerti

AIFA Editorial

26/03/2014

Negli ultimi 15 anni gli studi sull’effetto placebo (1) si sono intensificati, anche grazie all’identificazione delle aree del cervello coinvolte e dei meccanismi Psico-Neuro-Endocrino-Immunologici (PNEI) che regolano la relazione mente-corpo, e stanno fornendo un contributo prezioso nel trattamento del dolore e di altre patologie. Tali studi hanno infatti consentito lo sviluppo di tecniche basate sull’evidenza che sfruttano le risposte placebo nella pratica clinica. Inoltre, i medici sembrano oggi molto più confortati nel riconoscere l'effetto placebo come strumento terapeutico coerente con una comprensione scientifica della connessione psiche-soma (2).

In un commento pubblicato di recente su PubMed, C.W. Gay e Mark D. Bishop, dell’Università della Florida, fanno riferimento, in particolare, agli studi sui processi biologici che modulano la percezione del dolore nell’analgesia da placebo e nel suo opposto, l’iperalgesia da nocebo. “Ripensare le risposte placebo e nocebo come meccanismi modulatori endogeni – scrivono gli Autori – estende il focus della cura dal semplice intervento al suo contesto. Le variazioni dell’intensità percepita del dolore sono spesso attribuite a una varietà di fattori che si possono raggruppare in tre categorie:

  1. fattori correlati alla malattia,
  2. effetti specifici del trattamento, e/o
  3. effetti contestuali.

I fattori correlati alla malattia comprendono il suo decorso naturale e la regressione verso la media. Gli effetti specifici del trattamento sono quelli associati unicamente al principio attivo. Il contesto comprende i segni, i simboli e le interazioni con il medico che convogliano informazioni al paziente”.         

Le tre categorie, benché pratiche e utili, non devono però generare l’equivoco che vi siano percorsi biologici unici privi di influenza reciproca e di interconnessioni – scrivono gli Autori – Ad esempio, uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Oxford mette in evidenza che l’agente biologico attivo di un farmaco può produrre un effetto terapeutico diverso sullo stesso individuo, a seconda di una molteplicità di fattori personali. Si è dimostrato che l'effetto terapeutico del principio attivo remifentanil, un potente oppioide sintetico, può essere modulato in modo significativo influenzando sperimentalmente le aspettative del paziente mediante un insieme di istruzioni. Ai soggetti coinvolti nello studio è stato comunicato che remifentanil era un oppioide utilizzato (in infusione endovena) per alleviare il dolore, ma che il sintomo poteva peggiorare al termine dell'infusione. La somministrazione nascosta del farmaco ha prodotto una percezione dolorosa inferiore rispetto a quella iniziale; l’infusione “in chiaro” del farmaco ha prodotto una ipoalgesia (diminuzione della capacità di avvertire uno stimolo dolorifico) significativamente maggiore rispetto alla somministrazione nascosta e, quando il farmaco è stato fornito senza soluzione di continuità ma si è detto ai soggetti che era stato interrotto, la percezione del dolore è tornata ai valori iniziali. L'entità dell'effetto terapeutico stimato delremifentanil ha oscillato quindi da nessun effetto a un effetto moderato, a seconda dell’aspettativa creata dal set di istruzioni.

La ricerca sull’analgesia da placebo – scrivono Gay e Bishop – ha anche dimostrato che l'inganno non è parte integrante dell’induzione di una risposta placebo. In uno studio pubblicato da un team di ricercatori dell’Università di Harvard su Public Library of Science, i ricercatori avevano informato i soggetti con sindrome dell'intestino irritabile (IBS) che sarebbero stati randomizzati a ricevere un placebo in aperto o nessun trattamento. Ai pazienti trattati con il placebo era stato detto che avrebbero avuto risultati clinicamente efficaci in quanto, assumendo la pillola-placebo, avrebbero sfruttato le proprie capacità di recupero: nel gruppo placebo è stato riscontrato un miglioramento clinico maggiore rispetto al gruppo senza alcun trattamento. Un altro studio ha esaminato la ripetibilità degli effetti di contesto dopo aver informato i partecipanti che avrebbero ricevuto una sostanza inerte: ai pazienti trattati con crema antidolorifica inerte, che avevano riferito una riduzione del dolore, era stato detto successivamente che era stata applicata loro una crema placebo. In una visita successiva, gli stessi soggetti avevano nuovamente provato sollievo dal dolore, per la seconda volta, con una crema inerte.

Infine – scrivono Gay e Bishop – la ricerca sull’analgesia da placebo ha gettato luce sui meccanismi neurali alla base della modulazione endogena del dolore. Le reti corticali coinvolte nella trasformazione e modulazione di tale sintomo sono state identificate e continuano ad essere re-investigate, ridefinite e sottoposte a riconcettualizzazione. L’attività svolta in queste reti corticali dai diversi neurotrasmettitori tra cui gli oppiacei, i cannabinoidi, la dopamina e la colecistochinina, influenzano la percezione del dolore, e la modulazione può essere inibitoria o facilitatoria.

In una interessante revisione degli articoli contenuti nel database Pubmed fino al 2011, W. Hauser e i colleghi del Dipartimento di Medicina Interna, Medicina Psicosomatica e Psicoterapia dell’Università di Monaco hanno analizzato la letteratura scientifica sui fenomeni “nocebo”. Si parla di "effetto nocebo" – scrivono gli Autori – quando nuovi sintomi o peggioramento di quelli precedenti si verificano durante un trattamento fittizio, ad esempio nel braccio placebo di uno studio clinico, come conseguenza di suggestione intenzionale o non intenzionale e/o di aspettative negative. Per "risposta nocebo" si intendono sintomi nuovi e peggioramento di sintomi causati soltanto dalle aspettative negative del paziente e/o da comunicazioni verbali e non verbali negative (senza che vi sia alcun (falso) trattamento).

Gli Autori si soffermano sui meccanismi psicologici e neurobiologici e sui principale predittori di risposta placebo/nocebo. I meccanismi psicologici collaudati della risposta placebo - scrivono Hauser e colleghi - comprendono l'apprendimento del condizionamento pavloviano e la reazione alle aspettative suscitate da informazioni o suggerimenti  verbali. Esperimenti di apprendimento con soggetti sani hanno dimostrato che il peggioramento dei sintomi di nausea (causati dalla rotazione su una poltrona girevole) può essere condizionato: l’iperalgesia cutanea indotta da un’aspettativa è stata prodotta in modo sperimentale mediante la sola suggestione verbale; l’apprendimento sociale attraverso l'osservazione ha portato all’analgesia da placebo così come un’esperienza di condizionamento diretto. Meccanismi simili sono stati provati anche per le risposte nocebo. In uno studio sperimentale, 50 pazienti con mal di schiena cronico sono stati randomizzati in due gruppi per un test di flessione della gamba: il primo è stato informato che il test avrebbe prodotto un leggero aumento del dolore, al secondo è stato detto il contrario. Il gruppo che aveva ricevuto informazioni negative ha riportato dolore forte e ha effettuato un minor numero di flessioni rispetto all’altro.

Un elemento chiave nella mediazione della risposta placebo - proseguono Hauser e colleghi - è svolto da un certo numero di messaggeri chimici centrali. In particolare, la dopamina e gli oppioidi endogeni hanno dimostrato di essere mediatori centrali di analgesia da placebo e  giocano un ruolo chiave anche nella risposta nocebo (iperalgesia): la secrezione di dopamina e di oppioidi endogeni aumenta nell’ analgesia da placebo, diminuisce nell’iperalgesia.

Le tecniche di neuroimaging hanno consentito di identificare le aree del cervello attivate (tra cui la corteccia prefrontale dorsolaterale, la porzione rostrale e pregenuale del cingolato anteriore, la corteccia insulare e il nucleus acumbens) e di monitorare l’attività dei singoli neuroni quando viene somministrato un placebo, fornendo la prima evidenza diretta che il sistema oppioide endogeno, nello specifico l’attività sui recettori oppioidi, media l’effetto placebo. Queste scoperte spiegano il meccanismo attraverso cui l’aspettativa di sollievo del paziente può alterare la sua esperienza di dolore e il suo stato emozionale. Per decenni, vi sono state evidenze che il sistema oppioide endogeno giocasse un ruolo chiave nei meccanismi dell’effetto placebo, compresi gli studi che hanno dimostrato che l’effetto può essere bloccato dal naloxone, un antagonista oppioide. Ma gli studi di imaging hanno permesso ai ricercatori di osservare direttamente il circuito neurochimico stimolato quando si crede di ricevere qualcosa che possa procurare sollievo dal dolore (3).

Un altro aspetto rilevante è costituto dalle variazioni interindividuali. Il genere, ad esempio, è un riconosciuto predittore della risposta placebo ed esercita una certa influenza sulla risposta nocebo: in uno studio sull'aggravamento dei sintomi di nausea, le donne sono risultate più suscettibili al condizionamento e gli uomini alle aspettative generate. L’Identificazione dei fattori predittivi di risposte nocebo è un obiettivo centrale della ricerca attuale. Lo scopo è individuare gruppi a rischio di risposte nocebo, ad esempio i pazienti con alti livelli di ansia, e ottimizzare di conseguenza il contesto terapeutico.

Risposte nocebo possono essere generate da suggestioni negative non intenzionali veicolate dalle comunicazioni verbali e non verbali di medici e infermieri. I pazienti sono altamente ricettivi alle suggestioni negative, in particolare in situazioni percepite come a rischio di vita, come la chirurgia imminente, una grave malattia acuta o un incidente. In situazioni estreme, l'individuo si trova spesso in uno stato di trance naturale ed è quindi altamente suggestionabile e vulnerabile.

Un'altra causa di risposta nocebo può essere l'aspettativa del paziente. Anche solo l'annuncio degli effetti collaterali di un farmaco che sta per essere somministrato può provocare quegli effetti collaterali: è stato dimostrato che dire ai pazienti cefalalgici che sperimenteranno una lieve corrente elettrica o un campo elettromagnetico (ad esempio, da telefoni cellulari) produce mal di testa. Un altro esempio: i sintomi dei pazienti con malattia di Parkinson sottoposti a stimolazione cerebrale profonda sono più pronunciati se sanno che il proprio pacemaker cerebrale sta per essere spento.

W. Hauser e colleghi si soffermano poi sull'aspetto della valutazione degli effetti collaterali dei farmaci. I metodi utilizzati per la registrazione degli eventi avversi - rilevano gli Autori - influenzano il tipo e la frequenza degli effetti riportati: i pazienti dettagliano più eventi avversi quando li selezionano da un elenco standard di sintomi che quando li segnalano spontaneamente. In un notevole numero di trial farmacologici in doppio cieco, il modo in cui sono stati registrati gli effetti collaterali soggettivi dei farmaci non è descritto o lo è in modo inadeguato. Andrebbe quindi rivista in una luce critica la solidità dei dati su cui si basano i Riassunti delle Caratteristiche del Prodotto e dei Fogli illustrativi. I problemi nella valutazione degli effetti collaterali dei farmaci nei trial clinici randomizzati (RCT) si applicano anche nella pratica clinica quotidiana. Il sintomo riferito dal paziente, ad esempio la nausea, è un effetto collaterale del farmaco, un sintomo della malattia in trattamento, un sintomo di un'altra malattia, o una (temporanea) indisposizione estranea sia al farmaco che alla malattia?           
Gli Autori riportano altri esempi di possibile effetto nocebo nella pratica clinica. “Il contenuto di lattosio nelle compresse varia da 0,03 g a 0,5 g. Piccole quantità (fino a 10 g) sono tollerate da quasi tutti gli individui intolleranti al lattosio. Pertanto, la denuncia di sintomi gastrointestinali da parte dei pazienti intolleranti a conoscenza della presenza di lattosio nel farmaco che hanno assunto può rappresentare un effetto nocebo. Le aspettative che un trattamento sarà tollerato male, se basate sull'esperienza o indotte da informazioni veicolate dai media o da terzi di fiducia, possono produrre effetti nocebo: una revisione sistematica e una meta-analisi hanno evidenziato una stretta associazione tra l'attesa e la comparsa di nausea dopo la chemioterapia”.

Infine, Hauser e colleghi analizzano le implicazioni etiche e il dilemma del briefing medico-paziente e suggeriscono alcune strategie che potrebbero essere seguite. Da un lato - scrivono gli Autori - i medici hanno l'obbligo di informare il paziente sui possibili eventi avversi di un trattamento proposto, in modo che possa assumere una decisione informata. Dall'altro, è dovere del medico ridurre al minimo i rischi di un intervento clinico, inclusi quelli dovuti allo scambio informativo. Tuttavia, gli studi appena citati mostrano che proprio il briefing con il paziente può indurre risposte nocebo. Un primo suggerimento consiste nel calibrare lo scambio informativo: “le informazioni sulla frequenza dei possibili eventi avversi possono essere formulate positivamente ("la grande maggioranza dei pazienti tollerano questo trattamento molto bene" ) o negativamente ("il 5% dei pazienti riferisce..."), con effetti diversi sulla percezione individuale, come dimostrato da uno studio sulla vaccinazione contro l'influenza.        
Una seconda strategia può essere il "permesso di non informare": “prima della prescrizione di un farmaco, al paziente viene chiesto se accetta di non ricevere informazioni sugli effetti collaterali lievi e/o transitori. Il paziente deve tuttavia essere informato sugli effetti collaterali gravi e/o irreversibili: es. "Una percentuale relativamente piccola di pazienti che assumono un farmaco X ha avuto esperienza di vari effetti collaterali minori. La ricerca dimostra che i pazienti cui si comunica questo tipo di effetti collaterali hanno maggiori probabilità di avvertirli rispetto a quelli cui non vengono descritti. Vuole essere informato su questi effetti collaterali o no?". Per rispettare l'autonomia e le preferenze dei pazienti, potrebbe essere consegnato loro un elenco di possibili eventi avversi in modo che ognuno possa decidere di quali vuole essere sicuramente informato e di quali può fare a meno.    
Un ulteriore strumento suggerito è l'educazione del paziente: una revisione sistematica (quattro studi, 400 pazienti) su pazienti con dolore cronico ha dimostrato che la formazione da parte di un farmacista – informazioni generali sul farmaco e sul trattamento non farmacologico del dolore o sulla registrazione dei possibili effetti collaterali e una guida in caso del loro verificarsi – ha ridotto sensibilmente il numero di effetti collaterali dei farmaci.

Luca Pani


(1) “Placebo Domino in regione vivorum” (“sarò gradito al Signore nella terra dei viventi”), era il nono versetto del Salmo 116, entrato ufficialmente a far parte del linguaggio medico nel 1757 quando il Quincy’ s Lexicon definì il placebo «un medicamento usato più per far piacere che per giovare al malato». L' età contemporanea degli studi sul placebo può essere datata a partire dal 1945, quando l' americano Pepper puntualizzò in una Note on placebo la necessità di valutarne criticamente i pro e i contro, a partire da questo fatto incontestabile: che un malato può star meglio anche solo per aver passato alcuni minuti in buon rapporto con il proprio medico. (G. Cosmacini, Corriere della Sera, 16 gennaio 2005, recensione del libro Placebo, biologia, significato di Daniel E. Moerman, 2002).

(2) Lessons From Recent Research About the Placebo Effect—From Art to Science, Howard Brody, MD, PhD; Franklin G. Miller, PhD, JAMA

(3) Pain Studies Illuminate the Placebo Effect, Bridget M. Kuehn, JAMA 2005